2021 | Elena Pontiggia

PAOLA MARZOLI. IMPARARE A VEDERE.

Sto osservando nello studio di Paola Marzoli la famiglia di erbe che ha dipinto in questi ultimi due anni e mi tornano confusamente alla memoria le parole con cui Manzoni descrive la vigna incolta di Renzo. Non capisco come mai, perché quel campo inselvatichito è il contrario del mondo rigoglioso e perfetto, racchiuso nei quadri che ora vedete in mostra.

Certo, nelle opere recenti dell’artista la natura è percorsa da una sorta di horror vacui: non c'è un centimetro libero fra gli steli che si alzano nel verde, i gambi che si intrecciano sul terreno, le foglie che si intrufolano fra altre foglie. Tuttavia si sente che nulla, in questi quadri e quindi nella realtà a cui rimandano, è frutto del caso: ogni fiore, ogni pur minima pianticella che di solito non guardiamo nemmeno o, se capita, calpestiamo senza attenzione, ha un suo respiro, una sua vita. E alla fine – o anche all’inizio - quei prati dimessi e vitali non danno l'idea di un caos, ma di un cosmo, di un ordine che non dipende dalla mano dell'uomo.  L'opposto, dunque, di quell’orto del Seicento lombardo, abbandonato a se stesso, e alle ruberie dei compaesani, dal suo perseguitato padrone.

Eppure non riesco a non pensare a quella pagina manzoniana, anche se la ricordo male e non so più come va a finire. Appena posso la ritrovo. E’ al capitolo XXXIII. La vigna “era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino di ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce”.

Ecco il punto. Mi riconosco, e credo che tutti ci riconosciamo, in quel contadino che parla così genericamente. Anche di fronte alle pianticelle di Paola Marzoli, che erbacce non sono affatto, anzi hanno una bellezza commovente e nomi ancora più belli (Malva neglecta, Occhi della Madonna, Selene Vulgaris, Plantago lanceolata, Oxalis Acetosella) sentiamo la stessa inadeguatezza. Certo, non le chiamiamo erbacce, ma non ci siamo mai dati la pena di conoscerle, di distinguerle, di sapere come si chiamano. Anche noi facciamo sempre di ogni erba un fascio, come dice sapientemente il linguaggio comune. Dimentichiamo che la parola “erba”, secondo certe etimologie, rimanda al greco phorbé, che appartiene alla stessa famiglia di “foraggio” e deriva dalla radice sanscrita “Bharv”, masticare, divorare. Si riallaccia insomma a un atto fondamentale della vita come la nutrizione.

Per questo la pittura di Paola Marzoli è un insegnamento. Ci insegna a vedere il visibile: cosa difficile e rara, anche se visibile significa proprio “che si può vedere”. Le erbe che dipinge sono tutte un po' neglette come la sua Malva, perché non sappiamo guardarle, come non sappiamo contare i capelli che abbiamo sul capo. Col suo teatro naturale l’artista dipinge il miracolo della natura e lo cerca, quel miracolo, negli elementi più umili e piccoli. Non dipinge la rosa o l'orchidea, che tutti ammirano, ma le pianticelle che non ammira nessuno. Non cade però nella retorica pauperistica, uguale e contraria alla retorica alta. Basta vedere la dignità delle sue piantaggini, che sembrano i flabelli di un sovrano orientale.

Per farci meglio osservare i suoi prati – prati di periferia, ritrovati al QT8 o alla Cascinazza, nell’hinterland milanese - l’artista gioca attentamente con la prospettiva: le foglie e i fiori sono visti come se anche noi fossimo alla loro altezza (in tutti i sensi). Le loro dimensioni sono più grandi del vero, ma senza inutili gigantismi e senza infrangere l’equilibrio della composizione. Ogni quadro imprigiona una lieve geometria, tanto che in quel fiorire di foglioline e di minuscole corolle, in quel moltiplicarsi di forme organiche e naturali, non mancano accenni di diagonali, porzioni di ellissi e archi, direttrici oblique, persino qualche linea parallela. E’ una geometria nascosta, inavvertita, incompiuta, ma c'è. Anche il colore, che esplora le varie tonalità di verde ma non si sottrae alla regalità del blu, al grido soffocato dei gialli, all’affettuosità materna degli azzurri, collabora a creare un’armonia tra quelle miriadi di forme che si affollano e si sovrappongono.

Erbe e fiori si accordano bene insieme, un po' come nella filastrocca di Lina Schwarz che un tempo si leggeva alle scuole elementari e, nei versi per bambini, nasconde un'idea che per bambini non è: “Poco posto si tiene/ quando ci si vuol bene”. Ma è vero anche il contrario: c’è una tensione, una volontà di affermazione, se non di sopraffazione, nella natura come nella storia, nelle forme di vita più piccole come nelle più grandi, e i quadri le rivelano.

Il realismo di Paola Marzoli raggiunge in queste opere una introversa liricità. Il suo linguaggio oggettivo si potrebbe definire iperrealismo, ma dell'iperrealismo non ha la dimensione materialista. Ha invece un’ispirazione metafisica, perché si capisce benissimo che la natura per lei è prima di tutto il creato. E ogni creato rimanda a un Creatore.

Così, imparando dai suoi quadri a conoscere la veronica, la piantaggine e il fiore delle zucchine, possiamo imparare a vedere. E a scoprire, attraverso la magia della pittura, che anche una zolla di prato è una lezione di filosofia.

 

Dominus flevit op. 632 particolare