2017 | Rodolfo Balzarotti

Milano, Galleria Rubin (dal catalogo per la mostra)

Le immagini di Paola Marzoli probabilmente non nascono da un’intenzione di fare arte nel senso abituale del termine. Se sono arte, lo sono preterintenzionalmente.

L’arte, la sua gestualità per lo meno, è del tutto inapparente nei suoi dipinti. Sono sì dipinti, ma quasi con l’intenzione di cancellare ogni impronta o gesto personale dell’artefice. Guardate a distanza hanno una nettezza quasi fotografica che tuttavia ci sorprende con una presenza abbagliante.

Viste da vicino, si percepisce un paziente lavorio al pelo della superficie della tela, quasi di insetto che si muova su di essa depositando preziosi succhi. Viene anche alla mente, per altri versi, il lavoro della tessitura o dell’intarsio.

Sempre meno nelle ultime opere le sue immagini lasciano trasparire panorami, consentono vedute in campo lungo. La vista è subito intercettata da dettagli, soprattutto di rami e foglie – mirto, olivo, palma, sicomoro - che bloccandoci lo sguardo lo costringono non a sfondare ma a sprofondare.

Queste immagini sono estrapolate però da luoghi precisi, sono prelevate sul posto alla maniera, se così si può dire, di reliquie. Non a caso le sue ultime mostre portano nomi di luoghi, di luoghi santi. Come le reliquie, questi dettagli prelevati rimandano ad altro non tanto per analogia quanto per contiguità. E in quanto tali attestano, testimoniano un cammino, un percorso, una sosta, uno sguardo: «Nel fervore e dolore del viaggio punti di luce e sprofondi di buio sempre nuovi tra i sassi e le foglie della terrasanta».

"Punti di luce e sprofondi di buio". Ma la luce, la luce mediterranea, è comunque il fenomeno che esteticamente più ci colpisce. Questi rami e queste foglie hanno una nitidezza, una presenza di puro presente, senza sfumature di temporalità. Sono istanti assoluti. E in questa stessa misura assumono anche una consistenza che le sottrae alle contingenze del tempo.

Mi viene in mente una di quelle fantasie geniali con cui Clive Staple Lewis ha immaginato la natura paradisiaca nel suo libro Il Grande Divorzio.  In effetti, il paradiso non è da lui raffigurato banalmente come un impalpabile mondo di luce e di presenze eteree. Al contrario, esso è la cosa più dura che ci si possa immaginare. Le anime che si inoltrano per le sue immense praterie patiscono dolori terribili al contatto con i fili d’erba. E solo una graduale assuefazione consentirà loro di accordarsi a un tale "eccesso" di realtà.

Un eccesso, un “oltraggio” che mi sembra di ritrovare nelle foglie, nei rami, nei legni e nei sassi di Paola Marzoli. Forse anche queste foglie ci feriscono come lame acuminate, ma nello stesso tempo cominciano a guarirci dalla nostra inconsistenza. La loro assolutezza e definitività discende infatti da quello Sguardo del Figlio dell’Uomo che le contagiò per sempre per diventare anche il nostro sguardo.

Dominus flevit op. 722 particolare