2015 | Alfredo Tradigo

Recensione della mostra da Schubert

Seguendo la venatura di un’asse di legno o il profilo lanceolato di una foglia Paola Marzoli ci porta in un territorio che lei conosce molto bene per esperienza personale di viaggi che ripete regolarmente ogni anno: la Terra Santa, coi suoi sassi, i suoi ulivi e i suoi fichi, elementi naturali che sono entrati in contatto con mani, piedi, sangue e sudore del Dio fatto uomo. Quelle assi se le ritrova sotto i piedi, sul suo cammino di pellegrina in visita alla fontana del primo annuncio di Nazareth, o tra gli ulivi dell’Orto appena fuori Gerusalemme dove Gesù fu arrestato.

La pittrice lo sa e si porta a casa questi frammenti fotografici apparentemente casuali ma da cui lei si sente personalmente “chiamata” (vocata) e su cui poi lavora ripetendoli, copiandoli per imparare da loro come si fa a ricevere quella stessa impronta: nella luce e nell’ombra, nella grazia e nella non-grazia. Paola infatti non corregge le “imperfezioni estetiche” della natura ma le riprende così come sono. Viene da pensare alla fruttiera con la foglia vizza e la mela bacata della Canestra di Caravaggio. Realismo lombardo.

Così nasce l’universo pittorico della Marzoli. Stretto e grande. Dove la realtà viene seguita fin nei dettagli, senza compiacersi in soluzioni pittoriche di maniera. Ciò esige disciplina, distacco da sé, ma anche fedeltà in sé e fiducia totale in quello “sé” che è immagine e riflesso del mistero. Una fiducia in sé che poggia totalmente nell’Altro da sé. Così da abbandonarsi ai propri limiti sapendosi amati e generati ogni momento da un Altro. Per Paola il rapporto con la realtà passa attraverso la pittura. Una pittura icastica. Ascetica. Una “non pittura” la chiamerebbe lei. Pennellate come una lunga, interiore, reiterata litania.

opera 694 particolare