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2009 | Giuseppe Frangi | Milano, Galleria Schubert(dal catalogo per la mostra) Carissima Paola, È un mezzo per testimoniare un qualcosa che la sopravanza e in questo modo la giustifica pienamente. Il quadro in sé è una zona inerte se non si sporge sulla vita; se non si assume dei rischi; se in qualche modo non rende chiara la sua necessità. Il quadro è un oggetto che rimanda, quasi con ansia, ad altro. Il centro è fuori, oltre lo spazio definito dell’immagine, oltre il perimetro concreto della tela. Tutto il meglio del 900 è lì a dimostrarcelo. I tuoi quadri sono dei testimoni, segnati dal passaggio di qualcosa e di qualcuno, di cui nello spazio designato avverti un’eco. Ma di questo ti parlerò più avanti, quando ti racconterò i tuoi quadri visti con i miei occhi. Ora permettimi di parlare un momento di te, perché il parlar di te ha molto a che vedere con la comprensione della tua pittura. Ricordo la prima volta che ci siamo conosciuti, per il tramite che tu ben sai. Eravamo nella tua casa studio, arrampicata sul cielo e sui tetti Milano. Una casa calma, avvolta da un silenzio un po’ straniante rispetto alla sua topografia. Mi avevi mostrato la Via Crucis costruita sulle immagini dei sassi e dei ciottoli fotografati a Gerusalemme. Mi aveva colpito subito quella loro nudità, perché non avevi sentito il bisogno di aggiungere nulla a quel che avevi trovato sul tuo cammino, per raccontare la verità di “quel” cammino. Quelli erano, e quelli bastavano. Ti ho immaginato a testa bassa, procedere passo a passo, con l’occhio inchiodato a quei sassi che potevano essere stati, un tempo, testimoni di Chi tu ben conosci. Ti immaginavo procedere a testa china non tanto come pittrice penitente, ma come pittrice “attratta”. Ma lo star china implicava pure la coscienza che senza piegare la tracotanza dell’io, quei sassi sarebbero rimasti sassi e niente di più. Il nostro “tramite” dice che tu sei una donna sempre all’erta. Sono molto d’accordo. E dirò di più: quando penso a te mi vengono in mente le donne del Vangelo, che quasi mai hanno ruolo di protagoniste, ma che arrivano sempre prime. Che capiscono le cose in anticipo su tutti, come quelle due che il giorno di Pasqua si erano fatte trovare puntuali al sepolcro; eppure non sarebbe toccato a loro… quelle donne che dimostrano una sollecitudine amorosa nei suoi confronti, che lo intercettano e lo riconoscono senza bisogno di dover dire una parola. Basta allungare la mano per toccare il suo mantello; basta farsi trovare pronte con un panno per asciugargli il volto, sul cammino della Via crucis. Stando all’erta, sei sempre pronta a cogliere gli indizi. Come quel giorno – era un giorno terso di febbraio – in cui ti parlai di una piccola mostra di Aldo Rossi vista al Politecnico Bovisa di Milano. Mi aveva colpito il titolo: “L’azzurro del cielo”. Ti sentii subito reattiva nel raccontarmi le radici di quel titolo, la matrice che stava nel libro di Georges Bataille, l’importanza che aveva assunto nella biografia di Rossi di cui tu eri stata testimone. Diciamocelo: un’importanza “imprevista”, che allude a un’altra dimensione di quella grande persona e che evidenzia, più che una nostalgia, uno struggente, non esaudito desiderio. Te lo disse lui stesso, come tu mi hai raccontato, quando rispondendo a un gioco che gli avevi proposto, ti disse che il paradiso terrestre se lo immaginava come il trovarsi in mezzo ad un campo di stoppie ed erbe secche gialle che gli arrivavano al ginocchio e sopra si stagliava un immenso cielo blu. Immagino che l’idea ti frullasse già nell’anima, ma che in quel momento sentissi suonare una campanella, come se ti sentissi chiamata a completare quello che Rossi aveva sperimentato solo come immaginazione. Come un presentimento. Così hai cominciato a lavorare sul blu. Ci vuole coraggio e un grande cuore per lavorare con il blu. Tu sai cosa può essere il blu: basta essere entrati una volta nella cattedrale di Chartres per sperimentare con gli occhi quel paradiso terrestre immaginato da Rossi (“un firmamento” le aveva definite Charles Péguy). O basta essere entrati una volta nella cappella Scrovegni di Giotto, per sentir quanto fosse vera la cosa che ne disse, del tutto laicamente, Marcel Proust: «L’intero soffitto… e lo sfondo degli affreschi sono così azzurri che sembra che il giorno radioso abbia varcato la soglia insieme al visitatore umano». «Cos’è l’azzurro?» si domandava Yves Klein, un artista che immagino tu, come me , debba molto amare. «È l’invisibile diventato visibile». Il blu, diceva Klein, non ha dimensioni. Non è come gli altri colori che «sono degli spazi psicologici». E per spiegarsi citava a sua volta Paul Claudel: «L’azzurro tra il giorno e la notte indica un equilibrio, uno vero, come dimostra quel tenue momento in cui il navigatore, nel cielo d’Oriente, vede scomparire le stelle tutte insieme». Sempre Klein, nella sua visionaria lucidità, diceva che l’azzurro, essendo anti psicologico, chiedeva una spersonalizzazione: «Monocromizzavo le mie tele con accanimento, poi si liberò il blu onnipotente…» Tu hai affrontato il blu da uno stesso presupposto. Non poteva essere un colore atmosferico, impressionistico (Monet, il più grande degli impressionisti, aveva ammesso il limite: «Quanto al blu del cielo e del mare, è impossibile», lettera ad Alice Hoschedé da Bordighera, 1884). Doveva essere un blu esatto, verticale. Un blu compiuto, ma non per questo astratto. Un blu vero, ma non transitorio (il cielo del Battesimo di Piero spiega senza bisogno di parole quel che intendo dire). Un blu misteriosamente reale (forse perché coincide con il compimento di un’attesa, cioè del fattore più reale e più incancellabile che ci costituisce?) Ma il blu non è un colore che automaticamente dice quel che è. È un colore profondamente drammatico. A Chartres sparisce nel buio con l’arrivo della sera. E Michelangelo ha tirato striature di un blu, immenso, teso e apocalittico dietro i suoi capolavori estremi della cappella Paolina (ma quanto blu di tenebra anche nel suo Giudizio Universale!). Quanto al tuo blu c’è da aggiungere un altro particolare doveroso: per quanto decisivo sia, non è mai travalicante. Spesso mi hai raccontato come il tuo procedere nel fare il quadro sia importante per l’esito. E allora il blu (o il cielo di latte prima che il blu si palesasse) non è mai lo sfondo su cui si appoggia poi l’immagine. Il blu va a ritagliarsi il suo spazio seguendo il profilo delle mille foglie che tu hai dipinto in prima istanza. È una fatica doppia, ma in quel gesto si sente come una carezza, come un voler toccare e contare tutte le foglioline dell’ulivo (come tutti i capelli del nostro capo). Nulla sfugge, tutto lo riguarda. C’è infine un altro particolare nei tuoi quadri che mi colpisce. Per quanto palme e ulivi siano calmi, per quanto siano fermi nel cielo antico e potente di Gerusalemme, sembra sempre che un vento sia lì lì per scuoterli. Un vento imprevisto. Che agita e accende la realtà. Che scompagina le cose. Nella loro pace c’è un punto di inquietudine che li agita. Per rubare le parole a Clemente Rebora, sono “immagini tese”. “Tese” perché sono piene di desiderio, quasi di apprensione, che il vento davvero arrivi. Perché il vento – la Grazia – è tutta iniziativa sua.
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