2007 | Elena Pontiggia | Milano, Galleria Schubert

(dal catalogo per la mostra)

PAOLA MARZOLI. IN ATTESA DEL MIRACOLO.

È raro trovare un lavoro, come quello di Paola Marzoli, che abbia seguito un percorso tanto appartato, e insieme tanto vicino ad alcuni snodi nevralgici della ricerca contemporanea.

Sul primo aggettivo non c’è bisogno di insistere. C’è, nell’artista milanese, una consuetudine, una familiarità, verrebbe da dire un’esigenza, nei confronti di quella che i simbolisti chiamavano “beata solitudo, sola beatitudo”, e che Birolli definiva “solitudine attiva”, e che considerava la premessa di ogni autentica tensione espressiva. Anche se poi la solitudine non è così beata, ma si rivela problematica e dolorosa, o comunque scomoda.

D’altra parte Paola Marzoli non è un’artista isolata. Inizia a dipingere, anzi, dopo un’esperienza tra le più significative nel campo dell’architettura: studia Composizione con un maestro come Aldo Rossi, collabora con lui molti anni nell’ambito della sua cattedra al Politecnico di Milano, e, ancora, lavora nella redazione di una rivista fondamentale di quell’epoca come “Controspazio”, diretta da Portoghesi. Anche per questo la sua pittura è solitaria ma non individualistica, introversa ma tutt’altro che ignara di quanto è accaduto e accade. Per lo meno per quanto riguarda le cose che contano.

Ad essere precisi, comunque, Paola Marzoli aveva dipinto fin da bambina, e il suo percorso è stato solo interrotto dall’interesse, divenuto in alcuni anni totalizzante, per l’architettura. Del resto si è trattato di un’interruzione preziosa, che ha permesso all’artista di accumulare suggestioni, stimoli, occasioni di riflessione, che poi si sono tradotte nelle “architetture dipinte” degli ultimi anni settanta.
In questo periodo, infatti, dipinge architetture metafisiche in cui le reminiscenze di Mantegna, Piero, Leonardo si immergono in un’atmosfera dechirichiana, venata di lucido stupore. Il passato, sembrano dire queste opere, è il luogo dell’enigma, lo spazio in cui risuonano interrogativi senza risposta. Tutto, in queste composizioni, è insieme nitido e indecifrabile. Perché non c’è niente di più oscuro delle cose chiare.
Già in queste opere giovanili, però, e nel successivo ciclo dedicato all’Annunciazione, emergono due caratteristiche del lavoro dell’artista: il colloquio col sacro e la conversazione con la natura.

Il giardino dei semplici, il tappeto d’erbe e di muschi che appare nell’Annunciazione di Van Eyck, ad esempio, non è solo una reminiscenza del maestro fiammingo, ma esprime il bisogno di inserire l’elemento architettonico nel teatro della natura. Non c’è architettura, nei quadri di Paola Marzoli, che non si apra su un giardino, su un cielo, su un lembo di terra. In seguito l’artista rifletterà sempre più profondamente sulle origini naturali dell’opera architettonica: sul suo essere legno, albero, conchiglia, sul suo radicarsi nell’alveo del regno minerale e vegetale. Quella che dipinge è una natura potente, ma non trionfalistica: una natura non lussureggiante, anche quando è nel pieno rigoglio, e che mantiene un accento di povertà ascetica, anche quando è più doviziosa.
Analogamente, nei suoi quadri, si rivela la dimensione del sacro. E’ una sacralità, la sua, che non si traduce in simboli evidenti, in immagini consuete. Sembra piuttosto aleggiare nell’armonia matematica della composizione; oppure apparire, con discrezione, in forma di profilo o di riverbero (L’angelo di San Gottardo), quasi invitando la loquace vita, per una volta, a tacere.

Con questa accentuata sensibilità verso la fisicità e la spiritualità delle cose, Paola Marzoli dipinge la storia. Il passato getta la sua ombra maestosa su tante sue opere: ed è un passato dai confini vasti, che ricostruisce dalla Grecia alla Turchia una mediterraneità mentale, passando per i luoghi della poesia e del mito. Quello che l’artista racconta, però, non è l’age d’or di una certa retorica utopistica. E’, anzi, un passato malato, bisognoso di cure e medicamenti. Se, come dice l’Apostolo, tutto il creato attende la redenzione, anche la storia, non esclusa quella sua parte più luminosa che è la storia dell’arte, la attende. Non c’è differenza, allora, tra un tempio e una pietra, se il punto di vista non è quello della bellezza, ma della historia salutis.

L’ultimo atto del percorso pittorico, dunque, è guardare all’albero, al ciotolo, alla goccia d’acqua. Possono sembrare composizione astratte, informali, le opere recenti di Paola Marzoli, caratterizzate da una minutissima punteggiatura. Ma non è così. Anche i nomi che si potrebbero avanzare, per esempio quello di un maestro del realismo americano come Wyeth, sarebbero fuorvianti. Il suo percorso si è svolto seguendo tracce diverse, dall’arte alla natura alla vita. Trovando in ognuna la stessa malattia, la stessa colpa originaria. Ma trovando anche una speranza di guarigione. Anzi, di miracolo.

In attesa del miracolo, il ciclo di opere ultime esposte in questa mostra, è ben più che il titolo di una serie di dipinti: è, quasi, una dichiarazione di poetica. Dai silenziosi ambienti neo-quattrocenteschi alle Annunciazioni; dal Partenone alle visioni parallele di statue e ammoniti, spirali e altri segni; dagli ulivi del Getsemani alle storie del Giordano, tutta la pittura di Paola racconta l’attesa del miracolo. Come quella bicicletta arrugginita, così inadatta a muoversi nel deserto (avete mai provato a pedalare sulla sabbia?), che attende un suo privatissimo, amorevole, “alzati e cammina”. Per poter cominciare, o ricominciare, il viaggio.