2005 | Elena Pontiggia | Milano, Galleria Rubin

(dal catalogo per la mostra)

PAOLA MARZOLI. TRA FISICA E METAFISICA.

Colpisce, nel lavoro di Paola Marzoli, l’interpretazione dell’architettura. Paola Marzoli ha una formazione di architetto e un’esperienza aristocratica in quest’ambito (collaborazione con Aldo Rossi, redazione di Controspazio di Portoghesi). Quando dipinge, però, sembra che voglia indagare la pelle della costruzione: entrare nel cavo d’ombra delle colonne greche, percorrere le venature del marmo, toccare le volute dei capitelli, le scheggiature dei profili, le efflorescenze della superficie.

L’architettura diventa quasi un respiro della materia, diventa sasso e pietra, lichene e madrepora. E il tempio tradisce l’antica origine lignea: diventa tronco, corteccia, radice. Lo vediamo come lo vedrebbe una formica, come lo sentirebbe un filo d’erba.
Le tracce dell’arte e della storia, dunque, come gli indizi del sacro e del divino, appaiono nel corpo della natura. MICENE ci si presenta come un cumulo di sassi, come una dolina carsica. Priene ci fa pensare a una conchiglia, o al dorso coriaceo di una lumaca. Le rovine del tempio di SELINUNTE biancheggiano davanti a una distesa di sterpi, dove ti aspetti di veder guizzare la coda di una lucertola o frinire qualche cicala. Il Partenone appare come una balena bianca agonizzante, bisognosa di sostegni, di farmaci. Non c’è differenza fra una statua e un fossile, tra il segno alfabetico vergato nella pietra e l’ala d’insetto sepolta nell’ambra, che giungono a noi dalla profondità dei secoli.

In questa visione onnivora in cui regno minerale, vegetale e animale si sovrappongono e si confondono, non è strano spostarsi da un’acropoli a un orto, da un tempio a un albero, come da una civiltà all’altra. È appunto il passo ultimo compiuto da questa pittura, che dai territori della grecità si è spostata ora in quelli della cristianità e dal luogo di nascita di Sofocle (Colono) è approdata al luogo dell’agonia di Cristo. GETSEMANI si intitola infatti l’ultimo ciclo di opere di Paola Marzoli: diverse nel soggetto dalle precedenti, ma uguali nello sguardo.
Quel modo invasivo, insieme paziente e incontentabile, di scrutare la patina del tempo deposta su un frammento di colonna, lo si ritrova nel modo di indagare gli ulivi millenari, nel percorrerne i nodi, nel saggiarne l’argento delle foglie e l’ombra delle cavità. Prima ancora che a luoghi, in effetti, siamo di fronte a corpi vivi. E l’artista ne denuncia la malattia e la corruttibilità, ma ne registra anche la durata e la persistenza.

Così prima ancora che un paesaggio, sia pure classico o spirituale (i luoghi dell’arte greca, i luoghi dell’Incarnazione e della Passione), queste opere ci presentano delle forme: forme di vita, si intende, con il loro carico di sofferenza, e insieme la loro vocazione all’eternità.
L’artista stessa, nelle sue pagine, parla di un perdono: Colono è il luogo del mito, del bosco sacro delle Eumenidi, delle madri che concedono il perdono; Getsemani è il luogo della storia dove Dio stesso rimette il peccato dell’uomo.
Il percorso da Colono al Getsemani che Paola Marzoli dipinge è dunque una historia salutis, una vicenda di salvezza. Ma non c’è historia salutis senza historia morbi; non c’è salvezza possibile se non si ammette il male originario.
Il primo atto della guarigione è il riconoscimento della malattia. Nella pittura, sapiente, di Paola Marzoli, nel suo realismo accorato, c’è prima di tutto questo: il sentimento millimetrico e trascendente di una natura che attende la redenzione.
E insieme la scoperta che la redenzione non è un mito o una teoria. È iniziata, concretissimamente, tra le ombre di nodosi ulivi palestinesi, in una notte di aprile conclusa dal canto dei galli. Perché non c’è metafisica che non sia, prima di tutto, fisica.