2001 | Paola Marzoli | Milano, Galleria Schubert

(dal catalogo per la mostra)

APAGOREUETAI H ANODOS
ASCENT IST NOT ALLOWED
MONTEE INTERDITE

Così ho trovato scolpito su una pietra trilingue, alla base del Tesoro degli Ateniesi a Delfi e mi è sembrato uno dei titoli possibili per commentare le immagini che ho dipinto negli ultimi anni.

Abbandonata l’ascesa, lasciato l’inaccessibile, rinunziato al senza via (così si potrebbe tradurre in tono aulico la scritta sulla pietra greca), ho lavorato di linee e di colori a sostenere, anche se con ponteggi esili, i templi degli antichi dei e mi sono sostenuta a loro.
In un viaggio di qualche anno fa, nell’ora senza ombre di un giorno di solstizio di estate, forse nello stordimento di un abbassamento di pressione, ho visto il Partenone bianco, in una improvvisa sospensione di rumore e di colore, come il luogo fermo dell’inizio... E contemporaneamente l’ho visto di nuovo animato negli attrezzi quotidiani dei lavori in corso: irradiatore di energia come una reliquia ancora efficace, attrattore di pellegrinaggi culturali, turistici e psichici.
Edificato come affermazione forte di cittadini filosofi contro Persiani invasori, conferma di visioni sottili di maestri artefici e, giù al piede, gli scalpellini a scanalar colonne con precisione senza deroghe, in una fabbrica continua. Andirivieni di processioni sacre, reali e scolpite, e poi moschea turca, casamatta a prendere le cannonate di Morosini veneziano, l’esplosione, le pietre sparse a raccogliere lo sguardo commosso, per la rimembranza e le ruine, dei poeti romantici. La ricomposizione per i turisti: i ponteggi dei lavori in corso per tirare su le colonne, la gru a sollevare i massi bianchi nel cielo elettrico.

I lavori in corso attorno alle colonne, come un indizio, hanno animato due anni di lavori di colori e di composizioni senza domande.
Sono i tubi dei ponteggi che tengono su le colonne o le colonne che tengono su i tubi dei ponteggi? Così mi ha chiesto un’amica vedendo i quadri. Io non me lo ero chiesta. Avevo dipinto colonne che mi risultavano corpo e i tubi struttura rigida a ingabbiarlo. I tubi a ingabbiare templi. Templi, ho pensato nel dipingerli, edificati a loro volta come gabbie per gli dei.
Dentro i muri delle celle, circondati dalle colonne, un tempo erano stati chiusi gli dei: enormi in piedi o seduti in trono. Atena in piedi ad Atene e Zeus in trono ad Olimpia che alzandosi in piedi avrebbe sfondato con la testa il tetto. Pietrificati per non farli uscire. Le colonne tutt’intorno alla cella, come uomini giganteschi messi a guardia, tenevano dentro nella nuova ragione, modulata ad arte, quelle pulsioni sacre che indossate dagli eroi erano diventate smisurate e che prima, informi e metereologiche, inghiottivano dal fondo del mare, ricadevano come fulmini dalle vette più alte dei monti e, più agili, fluide, del tutto imprendibili e intentate, popolavano monti, sorgenti, alberi, boschi e fiumi di uomini meno offesi dal morire.
Chiusi nelle celle segrete dei templi, gli dei, onorati con nome e qualifica, alleati a forza a proteggere la città, deludevano gli uomini che li volevano garanti della loro legge ma, nel contrasto trattenuto tra tensione divina e pietra custode, testimoniavano ai contemporanei e ai posteri la tensione creativa di quella civiltà . Fin che non si sarebbero alzati in piedi sbadigliando a sfondare il tetto. In quanto a Morosini, molti secoli dopo, lui come Veneziano con i suoi cannoni, ormai gliene importava poco degli dei. E noi oggi con i ponteggi di una ragione diventata fragile e acuta, a volte stridula, ci impegnamo di nuovo a tener su quelle colonne rimaste sacre, ormai impregnate della forza contenuta ed esplosa degli dei che le abitavano.

A volte invece quella selva di bacchette rosse, eccitate nella vibrazione del cielo, moltiplicate nella pittura a muovere le ombre dentro i templi, mi risuonava nella testa come una struttura nervosa interna. Sinapsi, corde tese di pianoforte, note musicali sul rigo e allora erano le pietre calde che andavano a contenere tutte quelle punte e trafitture rosse, quei nessi troppo acuti di dei nervosi, ermetici.Colonne corpo, colonne denti nel cielo, colonne a delimitare aree di nuovo proibite ai turisti. Erbe ai piedi delle colonne e sassi, pietre lavorate e dilavate e terra. E secchi e attrezzi e cavi elettrici e insetti e vermi. Non potrebbe animare talmente lo spazio ancora liturgico di una cattedrale gotica: nemmeno quello di S. Galgano anche se scoperchiato ed erboso, anche se mosso nella interferenza con le leggende bretoni del sire Galvano cavaliere. Ormai estenuante, dopo secoli di fronteggiamento e di reciproco sostegno, il rapporto ascensionale con il dio unico dove, nel risucchio verso l’alto, i vermi della terra, le crepe della pietra perdono consistenza e senso.

Nel lavorio attorno ai templi, gabbie impotenti ma ostinate, abitate, abbandonate e impregnate dai molti dei, rimane tutto un formicolare di sensazioni e di interrelazioni. Lotte, tragedie, distruzioni minerali, vegetali, animali e umane e humus. L’intelligenza, la ragione (piccola di fronte alla natura ma da tener sveglia, come per Leopardi) elemento necessario nell’impasto. Necessaria alla visione. Almeno ingrediente nella formazione di un buon humus. Humus sacro. Riciclaggio di corpi e di pensieri. Corpo innervato nel terreno da cui si alzano e poi ricadono le colonne.

A Poseidonia-Paestum, in terra piana e bassa, conquistata e tenuta da coloni stanziatisi come padroni, ho visto, in una estate declinante, ostinata in un calore quasi bianco, i templi greci pesanti, acquattati, accostati come buoi aggiogati.

Protetto da fasciami di legno il tempio massiccio di Poseidone, oscurato da veli neri a ricostituire un buio opaco, interno. Gli dei che da lì non erano mai esplosi in partenze avventurose a elettrificare un cielo rimasto spesso e greve, si nascondevano dentro e si negavano, serpenti divini, infangati nelle loro spire, Pizie dalle parole circolari. E lo sguardo a frugare l’interno buio, a discernere, reso più acuto dall’oscurità, linee e nessi rossastri , fili di luci, riverberi e trasparenze.

Tagliata da ponteggi di metallo azzurro la basilica della dea, ferma in un contrasto paralizzante. Invisibili agli occhi abbagliati dal bianco i mostri che la abitavano. E allora lo sguardo cede e si abbassa su quella striscia scura, breve intervallo di margine, o di separazione o di terra di nessuno, tra il terreno brulicante e l’alzarsi delle basi di pietra da cui le colonne...

La pietra del proibito salire che ferma i turisti davanti al Tesoro degli Ateniesi a Delfi è una pietra da lavori in corso ma, ritrovata tra duemila anni, potrebbe risuonare come il Conosci te stesso che noi immaginiamo scritto sull’ingresso dell’antro della Pizia a Delfi.
Forse anche quello della Pizia era un cartello da lavori in corso: Attento alla testa. Oppure: Declina le tue generalità prima di entrare. Allora il rischio era soprattutto quello di perdersi nell’oscurità dell’antro.
Una pietra scolpita oggi in tre lingue porrà forse ai posteri un nuovo enigma.